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misurino, s.m.: “piccolo recipiente graduato o di misura” (De Mauro) “della capacità di due decilitri” con cui  veniva distribuito il latte dalle contadine anche a casa dopo poco essere stato munto dalle mucche oppure “trasportato con appositi secchi metallici” (P. Palavisini)

mò’, s.m.: modo, di cui è una forma apocopata. Modi di dire: “A quel mò’ ”: in quel  modo; “Gli garba agì’ a quer ber mò’ ”: le piace agire bene, ma si tratta di modi di dire in disuso, specialmente il secondo, usato un tempo più in campagna, mentre il primo è stato sentito in particolare a S.Pierino, ma non nella parte campestre

mo’ mo’!, interiez. tosc.: dammi, dammi, ma pare che si tratti di una forma apocopata di “mostra”, imperat. di “mostrare”, stando al DEI, che peraltro l’afferma in riferimento a “mò” e non a “mó”, sia pur come interiez. tosc. Comunque il passaggio da “mostrare” a “dare” si può benissimo spiegare nell’uso popolare

 mocci’aglia, s.f.: moccicaglia col significato di raffreddore con tanto moccio, donde la necessità di fare un’intensa opera di pulizia del naso

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miràolo, s.m.: miracolo. Modo di dire: “Che miraolo!”: che combinazione! Invece al pl. può significare moine, come nella frase: “Quanti miraoli gl’ha fatto!”: quanti complimenti sdolcinati le ha fatto!

mircio, agg. o s.m.: guercio, ma il termine è in disuso

mirolla, s.f.: midolla, ma la sostituzione della –d- con la –r- (diffusa nei dialetti campani, strana invece nel nostro vernacolo) è in declino

mìsero, agg. il cui concetto è intensificato nella voce “Miserennato”, nata, com’è evidente, dall’unione, mediante la cong. “e” di due agg., in riferimento a una cosa piccola e striminzita (al femm.) e ( al masch.) in quantità veramente ridotta, in riferimento a un pasto o comunque a un oggetto di scarso rilievo

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migliorà’, v.intr. quando viene detto come in vernacolo “ir tempo mègliora”, cioè miglióra, così come, appunto in vernacolo, viene detto “pèggiora” al posto di peggióra

miglioramento, s.m. che però assume un significato part. nella frase: “E’ il miglioramento della morte”: è il preludio della morte, appunto preannunciata da un miglioramento solo apparente del malato

mignattone, s.m. dal suff. chiaramente in contrasto col nome italiano: mignattino (“Chlidonias niger”), a Fucecchio chiamato anche “gabbianello” (“Larus minutus”), trattandosi di un piccolo gabbiano (C.Romanelli) che si ciberebbe di mignatte ovvero sanguisughe, ma il suff. di “mignattone” è una ulteriore conferma della confusione che certi cacciatori fanno anche in riferimento ai nomi d’uccelli, di cui pretendono d’intendersi tanto!

mille, s.f.pl. nel caso della frase in disuso “far delle mille per riuscì’ ”: “far l’impossibile per riuscire” (M. Catastini). Penso che derivi l’espress. usata da noi “millanni” o “mill’anni” (si pensi alla frase: “Mi par millanni che tu venga!”: non vedo l’ora che tu venga!)

mimmo, s.m., voce espressiva propria del linguaggio infantile (DISC), mentre invece nell’Italia Merid. è un ipocoristico, cioè un vezzeggiativo al posto di Domenico. In tosc. “mimmo” significa bambino, specialmente in pis. e livorn. “bimbo”, mentre “andare a’ mimmi” significa andare fuori casa, magari sottintendendo dove sono tanti bambini per giocare insieme. Infatti in castagnetano viene detto “a’ bimbi” (L. Bezzini)

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micco, s.m.: pur significando anche scimmia e nell’espress. fucecchiese “lavorare come un micco”, in questo caso come un mulo, insomma molto, talora potrebbe anche essere rivolta come un’offesa a una persona come nel romanesco (DEI) e corrispondere al fiorentino “grullo”, nell’italiano comune possiamo definire “micco” sciocco. Invece pare che in pist. significhi “orso”

mìciola, s.f.: pavoncella (nel lat. scientifico “Vanellus cristatus”). Si tratta anche di una “denominazione fiorentina” probabilmente derivata “dal richiamo notturno dell’uccello” (DEI)

migliaccio, s.m.: castagnaccio in Toscana e in particolare da noi, pur non essendo fatto di miglio, bensì di farina di castagne, almeno da quando ne siamo a conoscenza. Non escludo che un tempo questa “specie di torta” (DEI) venisse fatta con “miglio brillato”, ma il DISC conferma che il migliaccio toscano è il castagnaccio. Comunque non sorprende certo che chi vendeva il “migliaccio” venisse chiamato il “migliacciaio”

miglione, s.m.: milione con l’epentesi della –g- probabilmente per dare maggiore rilievo al concetto, trattandosi di una cifra enorme un tempo, mentre attualmente tale intensificazione nella pronunzia è molto rara, a parte forse alcune zone del contado. La grafia regolare si desume dalla derivazione dal lat. “mili(a)” = “migliaia” col suff. accrescitivo “-one”: infatti si tratta di un’unità “equivalente a mille migliaia” (DISC) un tempo di lire

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mia, pron.pl.f. dopo l’art. : le: le mie (sott. “cose”), ma diventa agg. se “cose” è espresso, ciò che avviene prima dello stesso, come nella frase, ancora oggi riscontrabile in part. in campagna: “Son coe mia!”: son cose mie! Talora si può anche dire almeno in campagna anche “i mia”: i miei: chiaro l’influsso pisano, dove “mia” può significare sia miei sia mie (B. Gianetti). Si pensi anche alla frase: “ ’un son mi’a mia”: non sono mica miei

mi’a, avv.: mica, cioè “affatto, per nulla”, derivato dal lat. “mica(m)”= “briciola”, il cui uso negativo “si può già intravedere” nello scrittore lat. Petronio (DELI: “non micam panis”= non una briciola di pane)

micchite, s.f.: attrazione sessuale, che penso possa derivare dall’accezione romanesca di “micco” come  “uomo lussurioso” (a questo accenna il DEI), non perciò dal significato di “grullo” che può avere “micco” da noi né, almeno direttamente, dalla scimmia brasiliana (“Cebus robustus”) con tale nome popolare                                                                                                           

miccino (a), loc. avv., attestata già nel ‘300 nel Bencivenni: consumare poco alla volta, dopo il v. “fare”. Deriva dal lat. tardo “micina” (= “un pezzetto”), dimin. di “mica”=“briciola” (DEI e ved.  “mi’a”). Quanto al rafforzamento di –c-, può essere dovuto a “ipercorrettissimo di fronte ad un presunto scempiamento” d’origine settentrionale, come afferma il DISC in riferimento a “micca”, voce milanese che significa “pane” secondo il DEI

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mèżżo, s.m.: metà, per cui l’espress. “Sentissi mèzzo e mèzzo” significa alla lettera sentirsi per metà bene e per metà male e quindi “così e così”, non proprio bene, oppure sentirsi un po’ “barżotto” (alla fucecchiese), ma nei vocabolari è registrata anche la voce “bażżotto”, derivando dal lat. “badius”=”baio”, “colore intermedio tra il rosso e il bruno”, passato poi a significare “stato intermedio” (DISC), anche se più propriamente viene detto specialmente dell’uovo “semicotto” (DEI). Quanto al suff. “-otto”, è precisato nel DISC che ha un valore “diminutivo” oppure “spregiativo” o “approssimativo”  e, ancora in riferimento a “barzotto”, è precisato nel Devoto-Oli che è una voce toscana e romanesca; in effetti da noi la –r- pare una consonante più espressiva della –z-, che era stata eliminata dall’ “alfabeto latino arcaico” e poi “reintrodotta nel I sec. a.C.”, ma messa “all’ultimo posto” (Idem), dove figura anche nell’alfabeto italiano

mézzo, agg.: bagnato, significato che conserva anche nella frase “E’ fradicio mezzo”: è tutto bagnato

mezzula (la), s.f.: mezzule (il), s.m. attestato dal ‘300 col significato di “doga” di meżżo “nella parte anteriore del fondo della botte” e che sarebbe una voce “usata a Pisa, Livorno e Lucca”, derivata da “mezzo”, ma “foggiato” su “pedule” cioè sulla “parte della calza che copre” il “piede”  secondo il DEI. Comunque anche la parola mezzula è senza dubbio in declino

mi’, agg. o pron. preceduti dall’art.: mio, mia, mie, miei, come in pis. e livorn.

mi’, specie di intercalare diffuso molto di più che da noi in pisano, per apocope di “mira” e perciò col significato di “guarda”. Potrebbe corrispondere al nostro “ba’ ”, che potrebbe essere invece un troncamento di “bada” ed essere forse collegabile col provenzale “badar”, cioè “guardare a bocca aperta” e quindi “fare attenzione” (DEI). Comunque anche nei pochi che nella nostra zona usano questa forma d’intercalare è chiaro che s’avverte l’influenza pisana essendo originari di tale area.

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meżżerìa, s.f.tosc.: “mezzadrìa”, ma l’ho sentito usare a Fucecchio col significato di società “immobiliare” a metà

mezzetta, s.f.: nel passato “unità di capacità per liquidi”, fra l’altro; voce pressoché scomparsa derivata da “mezzo” col f. di “etto” perché “pressapoco equivalente a mezzo boccale” (DISC)

mezzina, s.f.: brocca di rame usata nelle “cucine coloniche toscane”, un tempo di “terra”, già attestata a Firenze nel 1253: DEI, da cui si può dedurre che deriva probabilmente da mezzo (di trasporto) in particolare dal pozzo. Infatti questo si poteva trovare anche a una certa distanza dalla casa: non era certo agevole la vita contadina di una volta! Per quanto ben più raramente, pare che a Fucecchio questo termine indicasse anche un “mattone più sottile della mezzana”, cioè la pianella (A. Lotti)

meżżino, s.m.: mezzo bicchiere di vino (o un po’ di più), come nella frase “Dammi un mezzino!”: dammi un mezzo bicchiere di vino (o un po’ di più). Così a Fucecchio, mentre più in generale in Toscana, secondo il De Mauro, il mezzino corrisponderebbe a “mezzo boccale circa” di liquido

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méstolo, s.m.: “grossa mestola per cucina a forma di semicerchio” come nel Pisano, si desume da C. Giani

 

metìdio, s.m.: “cervello, giudizio”; voce pis., ma viva più in generale nel toscano almeno un tempo e nella var. “mitìdio”, attestata sin dal ‘300 e derivata dal gr. “metis, metìdos” = “senno”, tramite l’ipotetico dimin. “metìdion” forse mediante “una tradizione dotta medioevale” (DEI)

 

mètte’, v.tr.: méttere. Indic. pres., 3^ pers. pl. “Mèttano”: méttono. Pass. rem., 1^ pers. sing. “méssi”: misi, così come alla terza pers. sing. “messe” : mise e alla 3^ pers. pl. “messero” : misero, ma tutte queste voci più che altro nel contado e in decadenza, a differenza della pronuncia aperta della prima –e–, errata per la provenienza della parola dal v. lat.  “mittere”, passato dal significato di “mandare” a quello di “mettere”, come dimostrano le parole del Vangelo di Luca, V,37 secondo la “Volgata” : “et nemo mittit vinum novum in utres veteres” riferite dal DELI: “E nessuno mette  vino nuovo in otri vecchi”.

Quanto alla simpatica espressione “Mette’ le trombe”, significa “spargere una notizia ai quattro venti, annunciandola in modo clamoroso”, come afferma il DISC in riferimento alle equivalenti espressioni “Dare fiato alle trombe” e “suonare le trombe”.

Il proverbio “Leva e ‘un mètti fa la spia”: se levi denaro e non lo métti da parte o, meglio, se uno spende e non guadagna, ciò rivela le reali condizioni economiche di una persona.

Inoltre lo stesso verbo assume un significato particolare, per es., nella frase “Fu messo da Canidino”: fu collocato al lavoro da Canidino, nome un tempo abbastanza diffuso a Fucecchio o almeno tipico un tempo della nostra città derivando dal nome del suo patrono: S. Candido, con dileguo della  -d– e il suff. dimin. –ino. Si può inoltre sentire usare ancora l’espress. “Mettessi all’anima” anche nel senso di mangiare in modo smodato o. come si dice anche in italiano, per quanto sia di “basso uso” (De Mauro), “a strippapelle” (M. Catastini).

Viene sottinteso “nella pentola” quando si chiede: “L’ha’ (li hai) messi i fagioli?”, mentre non si usa più invece dire: “Mette’ ir fòo a letto”: mettere lo scaldino nel letto, appunto mediante lo scaldaletto o “trabiccolo”, altrove detto “prete”: ormai è da tempo che anche la camera è riscaldata ben diversamente!

Molto meno chiaro è il motivo per cui viene detto: “Mettessi in cinque e quattro”: rivestirsi per bene. Ipotizzo comunque che possa derivare dal fatto che il nove (cinque più quattro) era considerato un numero perfetto in quanto multiplo del tre, numero della Trinità (si pensi a certe suddivisioni dela Commedia dantesca).

Si tratta comunque di una espressione usata ancora a differenza di “mettessi in imperi” (“vestirsi a festa”: M. Catastini), essendo stata sostituita da quella sinonimica, anzi ancora più intensa ed espressiva “mettessi in ghingheri” e si trovava anche in P. Fanfani “mettersi sotto” (a noi peraltro nel contesto della conversazione capita di dire in linguaggio non sorvegliato, come abbiamo visto, “mettessi” prima di usare tale avverbio): attendere “di proposito” e con grande impegno, per es., “a studiare”.

Non mi risultano più usate le espressioni “Mettessi per orzo” (mettersi “di fianco”) e “mettessi di pruga” (“mettersi di traverso”) ancora sostanzialmente presenti in M. Catastini e probabilmente d’origine marinaresca al posto, rispettivamente, di “orza”, (s.f. derivato da “orzare”, verbo che sarebbe presente nell’Ariosto nel senso di “avvicinare la nave alla direzione del vento”), e di “pòggia”, che sarebbe il suo opposto secondo il DEI.

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merlino, s.m.: gambecchio ( “Calidris minuta”: C. Romanelli), voce toscana di un piccolo uccello palustre il cui nome locale deriva da “merlo” col suff. dimin. “–ino” così come ha un valore dimin. il suff.  “-ecchio” aggiunto a “gamba”, possiamo facilmente dedurre anche dal DISC e dal DEI

mesciòlo, s.m.: recipiente cilindrico “di metallo con manico lungo di legno”, usato “per cavare il bottino” (M. Catastini) o pozzo nero, ma il termine è caduto in disuso anche perché si tratta di un sistema senza dubbio superato pure dalle nostre parti. Pare però che almeno in quel di San Miniato fosse chiamato così una specie di “ramaiolo” (ma dalle nostre parti questo era chiamato “rumaiolo”) per tirare fuori l’olio dall’orcio

mescolanza, s.f.: insieme di erbe diverse di campo fatte a insalata

mestieri, s.m. sing.: mestiere, così come al plurale

méstola, s.f.: cazzuola, che secondo il DEI sarebbe un termine pisano e fiorent. e risalirebbe all’Ottocento; a Fucecchio o ne suo contado pare che un tempo significasse anche “fame”. Da notare che a Fucecchio si trovava una persona con questo soprannome a causa del mento molto proteso in avanti, sì da far ricordare, appunto, una cazzuola e invece a S. Pierino questo soprannome era stato dato a una persona perché con tale strumento da muratore aveva a che fare per la sua attività imprenditoriale

 

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menuto, s.m.: “minuto” (M. Catastini), ma è in declino (per quanto si trovasse anche in pis. e in livorn.), essendo caso mai relegato a qualche angolo del contado, da cui viene fatto di pensare che sia giunta questa lieve storpiatura, forse derivata dall’influsso di “meno”

Meo, ipocoristico di Bartolom(m)eo, è diventato a Fucecchio, e non solo, quasi un nome comune usato in espressioni come “Trinca, Meo!” in riferimento a una persona che beve molto (si tenga presente che in tedesco “trink” significa “bere”) molto probabilmente perché un certo Bartolomeo beveva molto, ma l’alcolismo almeno a Fucecchio era più diffuso in tempo di miseria rispetto a oggi fra gli adulti

merciaino, s.m.: chi “si occupa della vendita di articoli di merceria”, ma di basso livello, induce a pensare anche il suff. dimin. “-ino” aggiunto a livello popolare a “merciaio”, per quanto tale suff. possa indicare anche un mestiere come nel caso di “contadino” (DISC). Comunque il termine “merciaino” è pressoché scomparso come lo è ormai del tutto tale mestiere almeno nella nostra zona

merda!, esclam. molto volg. detta con rammarico (ohi!) di fronte a una situazione molto spiacevole o rivolta con particolare sdegno a una persona per offenderla molto gravemente

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