Il Toscanario

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di Giancarlo Carmignani

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opra, s.f.: “lavoro temporaneo”. Modo di dire: “Andà’ a opra”: andare “a giornata” (L. Bezzini), senza contratto; “lavorare a tempo determinato”, talora “a ore” anziché “a giornata” anche nel Pisano

orcino, s.m.: macellatore di maiali e che faceva gli insaccati, molto probabilmente perché erano famosi quelli che facevano tale mestiere e che provenivano dalla Val d’Orcia (Siena), ma più famosi sono i norcini, provenienti da Norcia

ordinotte, s.m. tosc.: “suono della campana dopo il tramonto” (M.Cortelazzo-C.Marcato); deriva chiaramente da “ora di notte” ovvero della notte, di cui si può dire che segna l’inizio. Inoltre c’è chi accenna all’ordinotte per indicare una particolare oscurità

orecchiandolo, s.m.: orecchiante o, meglio, “con l’orecchio buono”, “tutt’orecchi”, nel senso di persona molto dotata di sensibilità musicale, pur senza aver fatto specifici studi sul piano della teoria musicale. Chi è orecchiante è talora capace di tenere a mente ciò che ha sentito anche una volta sola

 

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ombra, s.f. usato “per rafforzare frasi negative” (DISC) specialmente nell’espress. “Neanche per ombra!”, corrispondente a quella vernacolare usata non molto tempo fa e raramente: “Neanche per un branato!”: neanche per sogno! neanche per idea! niente affatto!

òmo, s.m. “ant. o tosc.” (DISC): uomo, di cui è una var. (De Mauro) anche nel proverbio del contado fucecch. “La minestra è la biada dell’omo”, in cui è sottolineata l’importanza della minestra per l’alimentazione umana.

Altro proverbio contadino in cui figura tale termine è: “A tavola si conosce l’omo” in cui esagerando (l’esagerazione e lo scherzo insieme alla sapienza popolare e talora la rima o l’assonanza sono spesso caratteristiche dei proverbi contadini) si vuol sottolineare che l’uomo si riconosce da quello che mangia anche in riferimento alle sue condizioni economico-sociali. Un’espress. almeno un tempo diffusa e non solo nel mondo contadino era (ma c’è chi lo dice anche anche nei nostri tempi): “O mi’ omo!” oppure “O ‘ell’omo!”: o quell’uomo! per dire: “O te!”, “Ehi!”, talora con un certo disappunto o, comunque, con uno spirito non proprio benevolo, come quando viene detto “O furbacchione!”, anche se alla lettera vuol dire “O mio uomo!”.

Il termine  “omo” fa venire in mente l’origine lat. della parola “uomo”: “homo”, colleg. con “humus” = “terra” e quindi originariamente “terrestre” in opposizione agli dei “celesti” e a sua volta “humus” ha dato origine all’agg. “humilis” propriamente “basso” (DISC), dal cui accusativo “humilem” è derivata la nostra parola “umile”

on, particella seguita da un verbo: o non, seguito da un verbo al condizionale e poi da un punto interrogativo, a sua volta preceduto, per es., da un pronome come in: “On faresti questo?”: O che non lo faresti questo? In grammatica si può parlare, per questa forma vernacolare, di una cong. fusa con un avv. negat. solo all’apparenza, trattandosi, nel caso cit., di una frase interrogativa retorica, essendo “ovvia”, almeno per lo più, la risposta alla domanda fatta (DISC), si pensi anche alla frase “On è andata lì?”: o non è forse andata lì?

 

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oglio, s.m.: olio, di cui è una storpiatura ora contadina e “dialettale”, estesa anche oltre la Toscana occidentale e meridionale e testimonianza di una forma antica attestata sin dal Duecento (DEI). Della sua esistenza almeno un tempo è testimonianza la parola “capodoglio” derivata da “capo d’olio” a causa del “grasso ricavato dalla testa di tale animale” (De Mauro)

ogni, agg. indefinito, ma sostantivato nell’espress. d’un lat. da ritenersi maccheronico “Ogni moderata durant”: ogni cosa moderata dura (nel tempo), essendo considerata almeno in generale la moderazione efficace, salutare nel tempo

ohi!, esclam., ma par quasi avere la funzione di sostantivo nel caso del proverbio: “Se hai hai, se non hai, ohi!” (M. Catastini): se hai dei beni stai bene, se non li hai son dolori, cioè lamenti

oimmène, “escl. di dolore, in origine riferito alla sola prima persona (Dante)”, è affermato nel DEI in riferimento all’esclam. it. “ohimè!”, di cui la nostra è una var. per probabile influsso pisano. Però in livorn. e in pis. sembra che prevalgano rispettivamente le forme “Ohimmena” (V. Marchi) e “Ohimmèi” (B. Giannetti), del resto tanto simili alla nostra, ma non è detto che si tratti sempre di esclamazioni di dolore: si può trattare talora di semplice sfogo o di espressione di “impazienza”, se non di una forma d’intercalare: il difetto di lamentarsi è fin troppo diffuso!

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o, cong. Talora dalle nostre parti la “o” è usata come segnale discorsivo di “apertura” (De Mauro), come nella frase, rivolta a una persona che non si incontrava da tempo: “O come stai?”, dove non ci sarebbe certo bisogno della congiunzione iniziale

occhià’, v. tr.: occhiare, da noi non proprio disusato, ma in it. è meglio usare “adocchiare” per dare il senso di “guardare con insistenza”, possiamo dedurre dal DISC

occhio, s.m. usato in diversi modi di dire come, per es., nelle frasi: “È meglio facci (farci) l’occhio”: è meglio abituarcisi e “È ‘r su’ occhio diritto”: è il suo preferito.

Quanto all’espress.“Occhio pio”, mentre secondo R.Cantagalli è riferita a chi “guarda maliziosamente una donna” facendo l’occhiolino e perciò in un modo “tutt’altro che pio”, nel nostro linguaggio familiare (e nel senso di dare “celatamente occhiate amorose” veniva usato anche a Firenze verso il 1863) indica chi ha un occhio difettoso ( o in quanto socciuso per una alternazione patologica o perché affetto da strabismo) e perciò in tal senso può suscitare una forma di pietà. Comunque l’espressione si spiega per il fatto che chi prega (e in tal senso può essere considerato pio per il fatto che la preghiera è considerata una “pia elevazione dell’anima a Dio”) può tenere l’occhio o gli occhi socchiusi. Un tempo a Fucecchio erano soliti giocare con un fanciullo toccandogli un occhio e dicendo: “Questo è l’occhio bello,

questo è ‘r su’ fratello” (toccandogli l’altro occhio);

“questa è la chiesina” (tocandogli la bocca) e poi gli toccavano il naso e lo agitavano lievemente  come se fosse un campanello dicendogli: “e questo è ‘r campanellino: dilìn, dilìn, dilìng!”.

Ben diverso dai significati sopra citati è quello della frase “Fa l’occhio di triglia”: fa l’occhio a “pesce lesso” (almeno nel linguaggio familiare), cioè a persona innamorata (Rigutini).

Proverbio o breve detto: “Occhio non vede, cuore non pensa”: l’amore è alimentato dalla vista.

“Occhio!” (esclam. diffusa specialmente nel linguaggio giovanile e in particolare in quello studentesco), seguita anche dal complemento di termine “alla penna”: sta’ attento! e, più in generale, come nel Pisano, attenzione!

occhio rosso, s.m. seguito dall’agg. che si spiega per il “colore mattone dell’occhio”: occhiocotto (“Sylvia melanocephala”: C.Romanelli)

 

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nuvolame, s.m.: grande quantità di nubi minaccianti la pioggia; voce efficace specialmente quando viene detto con rammarico: “Che brutto nuvolame!”, dal momento che il suff. “-ame” forma sost. “spesso con valore  collettivo (…) o con connotazione spregiativa”, deduco dal DISC, e dal DEI ho appreso che è attestato nel Targioni Tozzetti prima del 1802

nulla (di), loc. avv.: dal nulla, da poco, ma detti ironicamente per antifrasi, appunto, per es., nell’espress.: “È buono di nulla!”: com’è buono! oppure: “È un affare di nulla!”: è una cosa proprio seria!

nuvolata, s.f.: una “grande quantità di cose in aria”, in Maremma ma soprattutto di nuvole a Fucecchio (M. P. Bini ), dove peraltro tale voce non è più usata, nonostante che il suff. “-ata” si spieghi perché poteva indicare, sec. il DISC, “un rapporto di relazione”

‘nzuppa, s.f.: zuppa: “piatto caratteristico della cucina locale” è appunto la “zuppa di pane di Fucecchio”. È chiaro che anche in questo caso il suono è espressivo.

Essa non “viene ribollita, come il piatto cucinato a Firenze, ma consumata ancora calda nella classica terrina di coccio”, almeno per lo più, nei ristoranti tipici. In essa al “pane toscano raffermo vengono uniti fagioli cannellini, cavolo verza, pomodoro, verdure varie e timo”. Non meraviglia perciò che abbia un profumo veramente gustoso. Invece nella ‘nzuppa (come viene chimata da noi la zuppa in modo espressivo con tale prostesi specialmente se preceduta dall’agg. “bella” e prima ancora dalla cong. esclam. “che”) a Castagneto Carducci, oltre che di verdure e fagioli, viene fatto uso di pesce e si capisce, data la grande vicinanza di tale località al mare

 

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normale, agg., ma preceduto dalla prep. sempl. “di”  diventa una loc. avv. col significato della loc. avv. di “norma” e dell’avv. “normalmente”, corretti in it. a differenza della loc. “di normale” sentita usare a Fucecchio

nòttola, s.f.: “legnetto per fermare le imposte aperte” e in part. la porta nell’espress. scherzosa tipicamente toscana “Che c’ha’ la nottola?”, sottinteso “a casa”, quando una persona non chiude bene la porta, con disappunto di qualche presente che l’postrofa in tal modo talora per il “riscontro” (cioè la “corrente d’aria”: De Mauro) così provocato

nottolaccio, s.m. in cui il suff. dispreg. “-accio” dipende dal fatto che questo uccello presenta un brutto aspetto, mentre esso è chiamato per lo più nottola in Toscana perché è “facilmente osservabile all’alba o al crepuscolo”, cioè verso la notte; è chiamato anche succiacapre (“Caprinulgus europaeus”) perché secondo un’antica credenza esso cercherebbe nutrimento “succhiando il latte alle capre” (C.Romanelli)

nùllare, avv.: niente affatto, forse risentendo del lat. “nulla re” = “per nessuna cosa” (così come viene detto “per nulla al mondo”) e nell’ambito familiare e quindi ristretto, in cui viene detto scherzosamente

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noccolello, s.m.: imbarcazione di modeste dimensioni del Trecento: non meraviglia perciò che si tratti di un termine non più usato da molto tempo, ma questo non è un buon motivo per metterlo nel dimenticatoio

nocio, s.m. pop. tosc. (Devoto-Oli): noce (“Juglans regia”), ma è una voce senza dubbio in decadenza, oltre che essere circoscritta al contado

nodicchio, s.m.: nodo striminzito della cravatta con un dimin. (“-icchio”) usato in questo caso nell’ambito del linguaggio familiare

nòe, avv. con l’epitesi: no; da notare che nel Duecento in fiorent. veniva detto anche “nòa” coll’epitesi part. di –a, aggiunta in questo caso a un vocab. uscente in –o, mentre, per es., a Vairano Patenora, in provincia di Caserta, dicono “nóne” e in toscana ho sentito dire, ma penso per scherzo,  “nòne”, nel qual caso possiamo parlare di epentesi più epitesi

nòra, s.f.: nuòra, di cui è considerata una var. dal De Mauro e una voce antiquata dal DISC, ma da noi è ancora diffusa

norma, s.f. accoppiato con la v. equivalente “regola” (“Per tua norma e regola”) per dare maggiore “forza al discorso” come avviene con l’accoppiamento contrario nella disposizione, ma equivalente nella sostanza, “regola e norma” nel “vernacolo fiorentino” (R. Cantagalli)

nòvo, agg.: nuovo. Modo di dire: “È nòva (probab. sottintendendo la parola “cosa”)!: che novità!, espress. detta peraltro ironicamente in riferimento a una cosa che non costituisce affatto una novità. Però, se ciò viene detto con disappunto, significa: ancora una volta è andata male!

 

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Nino, nome personale m. usato però tante volte in modo generico, così come il corrispondente femminile Nina come per dire: “O te” in un dialogo, talora perché non si ricorda o non si conosce il nome della persona a cui ci rivolgiamo, un po’ come veniva fatto nel passato con “nano” e “nana”, ma rivolgendosi a persone di età notevolmente inferiore da parte di anziani

nìssero, agg.: “ingenuo” (M. Catastini), ma è una v. scomparsa dall’uso, a parte il fatto che io personalmente non l’ho mai sentita usare

nissuno, agg. o pron.: nessuno. Per quanto si trovi anche nel Duecento e precisamente nel “Novellino”, ora è “contadinesco” (DEI) e proprio raro da noi, mentre era più che altro usato specialmente in pis. e livorn.

noaltri, pron.: noialtri, diffuso un tempo più che altro in pis. e nelle nostre campagne

nocchino, s.m.tosc.: “colpo dato sulla testa (…) con le nocche della mano chiusa a pugno” (De Mauro)

nòccola, s.f.tosc.: nocca delle mani e dei piedi (De Mauro); infatti deriva dal longob. “knohha” = “giuntura” (in riferimento, appunto, a quella “delle dita delle mani e dei piedi” deduco dal DEI), anche se, rispetto a nocca, il nostro t. è sul piano formale un dimin. così come “nocchino” (M.Cortelazzo-C.Marcato)

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nighiàndolo, s.m.: “nido di gallina nel pagliaio” (M. Catastini): t. in disuso, di cui si può comprendere benissimo il motivo, data la situazione attuale delle nostre campagne e questo si può dire anche per la corrispondente v. pisana “nidiàndolo” (cui accenna il DEI) chiaramente derivato da “nidio”= nido. Questo, come abbimo visto, veniva chiamato dalle nostre parti “nighio” e il suff. “-olo” ha funzione dimin.

nimo, pron.: nessuno, dal lat. “nemo”, che ha appunto tale significato, con influsso di “nissuno, niente, niuno” (Cartelazzo-Marcato) per spiegare il passaggio da –e- a –i-; almeno qualche tempo fa era abbastanza usato dalle nostre parti specialmente in campagna, dove la tendenza a conservare il linguaggio del passato è più spiccata e che “nimo” (usato anche a Castagneto Carducci) sia una forma “arcaica” per dire “nessuno”, come sostiene L. Bezzini mi pare certo evidente!

nini, s.m.: ragazzo caro, ma questo t., in netta decadenza, pare che fosse più usato, per es. a Stabbia (specialmente come vocativo) che a Fucecchio. È in livorn. un “vezzeggiativo rivolto ai bambini” (V. Marchi), più in generale per chiamare una “persona cara”, sec. il DEI, che afferma questo riferendosi in modo più esplicito a “nino”. Lo stesso diz. ritiene che questo t. sia un’abbreviazione di Giovannino, senza che questo escluda che l’ipotesi valga anche per l’ “indeclinabile” nini, dalla desin. in –i forse per assimilazione alla –i- precedente

nìnnolo, s.m.: “gingillo”. Modo di dire: “Fra ninnoli e nannoli”: fra una cosa e un’altra o fra cose di scarsa “importanza” (Devoto-Oli) e in part. in una frase come “Fra ninnoli e nannoli s’è fatto mezzogiorno” significa che a forza di traccheggiare fra cose di scarsa importanza abbiamo fatto “tardi” (R. Cantagalli). Si tratta di una loc. sostantivale d’origine onomat., collegata col linguaggio infantile, come può spiegare l’infl. sulla stessa dei termini “ninna” (“bambina”: DEI) e “nanna” e dei dimin. di queste

 

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nìcchisse (con la var. registrata in M. Catastini “nìcchesse”), avv.: niente,  del ted. “nichts” (con lo stesso significato), usato dalle nostre parti negli anni immediatamente seguenti al secondo dopoguerra, ma caduto progressivamente in disuso. Era usato specialmente nelle risposte e piuttosto scherzosamente o comunque con decisione, come quando veniva detto “Nicchisse arbaitte” per dire “niente da fare”, anche se propriamente in ted. “Arbeit” vuol dire “lavoro”, per cui l’espress. alla lettera voleva dire “niente lavoro”

nidio, s.m. tosc. e in particolare in pis., lucch., maremm. (DEI) così come nighio: nido. Si tratta di termini vernacolari entrambi presenti un tempo in particolare anche nelle nostre campagne, ma ormai in netto declino, come dimostra anche la scomparsa pressoché totale del detto già registrato “Nighio fatto, gazzera pena”

nìfido, agg.: scontroso, ma è una voce caduta in disuso. Fra l’altro era usata più che altro al f.: nifita, con la var. “nifida” attestata da M. Catastini. Penso che possa derivare da “niffa”, a sua volta dal basso tedesco “Niffe” col significato di “grugno” e questo con quello di “espressione corrucciata, broncio” (De Mauro) così come l’ant. “nifo” (DEI) con l’aggiunta del suff. “-ito” o “-ido”. Comunque “nifito” è riportato nel “Vocabolario dell’uso toscano” di P. Fanfani col significato di “stizzoso”, traendolo dal “Vocabolario lucchese” del Bianchini

 

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