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pecegrea, (con la var. “bicigrea” meno diffusa almeno nel secondo dopoguerra, rispetto al quale periodo le due voci sono in netto declino, anzi possiamo parlare di completo disuso), s.f.: liquirizia (ma pop. “liquerizia”: DISC). Molto probabilm. la voce è nata per la confusione con la pece greca (si noti ancora il dileguo della –c-, frequente, come sappiamo, nel vernacolo fucecch.): “materia resinosa estratta dalla trementina” (DEI)

pèda o pedina, s.f.: gioco che era praticato a Fucecchio nel secondo dopoguerra dai ragazzi un po’ più grandi e che consisteva nel disporsi “in fila un poco distanziati tra loro e a dorso piegato. Un ragazzo cominciava il gioco, (…) saltando a gambe divaricate i compagni davanti, poggiando le mani  sul loro dorso (…) e ponendosi poi egli stesso a dorso piegato, per essere a sua volta saltato da tutti gli altri” (P. Palavisini); questo gioco in castagnetano era chiamato “sartaboddicchio” (L. Bezzini)

pedonata, s.f.: tipo di caccia praticata un tempo nel Padule di Fucecchio (Massarella) consistente nel pedinare gli uccelli con l’aiuto di cani e ucciderli, deriv. dal verbo “pedonà’”: seguire a piedi

pèggio, avv. usato anche nell’espress. “Peggio che andar di notte!” usata “quando a una difficoltà ne segue un’altra”; infatti un tempo (si pensi in partic. al Medioevo) l’ “uscire di notte per le strade non illuminate e piene di pericoli” provocava certo “inquietudine” (R.Cantagalli) e paura. Si noti perciò come specialmente certi modi di dire affondino le loro radici nella storia, ciò che li rende senza dubbio più interessanti

 

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pausino, s.m.: giovinetto o comunque persona anche troppo elegante, corrispondente a una voce romagnola “giunta fino a Roma” (“paìno”: “borghese ben vestito, chi segue tutte le mode”: DEI), ma nella voce fucecchiese c’è anche l’idea d’una eccessiva compiacenza di sé, di maniere affettate. Probabilmente deriva da “pausa”, che significa anche “posa” (Id.): infatti il pausino è una persona che dà l’idea di posare, cioè di “assumere un comportamento non spontaneo, innaturale” (De Mauro), di darsi delle arie. A Fuc. questo nome inventato ha dato origine anche a un soprannome dopo l’ultimo dopoguerra

, s.m. onomatopeico (con la var. f. “peata” e con quella m. “pèo”: due var. peraltro meno diffuse almeno dalle nostre parti): “tirata di fumo” dalla sigaretta, almeno da noi, piuttosto che dalla pipa o dal sigaro come sostiene il DEI. Si tratta comunque di termini finalmente quasi del tutto superata grazie alla lotta ormai da anni intrapresa giustamente contro il fumo. Tuttavia ancor più superato è per un motivo diverso il gioco a “pè”, consistente nel “far voltare una monetina tenuta in mano soffiando forte”, di cui parla P. Fanfani nel riferimento che ne fa lo stesso Diz., oltre a parlarne P.Palavisini in rifer. ai giochi che un tempo erano praticati a Fucecchio. Proprio dal suono prodotto dallo “sbuffamento” durante il gioco di cui parlava P.Fanfani potrebbe essere derivato “pè” nel senso di soffio, parola con un significato ancora più part., sia pure espress., per es., nella frase: “ ’Un m’ha fatto un pè!”: non mi ha fatto proprio niente!, come pure in quest’altra: “ ’Un ha fatto pè!”: non si è lamentato per niente! oppure non ha emesso nessun grido, nessun rumore o non ha fatto nessuna rimostranza, oltre a significare che non ha detto neanche una parola

pécchia, s.f.: “buccia interna della castagna”, voce anche pisana e lucchese (DEI) derivata dall’aferesi di “capecchia”, forma toscana di “capecchio”, mentre da un’altra aferesi derica “pecchia” col significato di “ape” sec. un’accezione tosc. deriv. dal lat. “apicula(m)”, dim. di “apis”= “ape” (De Mauro), ma passata come altre parole all’it. uffic. anche per motivi letterari. Infatti è stato usato nel secondo senso anche dal Poliziano

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pattóna, s.f.: un tempo si chiamava così l’aquilone più semplice, che era fatto volare dai ragazzi fucecchiesi agl’ inizi del secolo scorso. Esso era “composto da un foglio di carta qualsiasi ritagliato a cuore, imbastito in croce con due sottili steccoli e completato con una coda di anelli di carta” (P.Palavisini). Invece a Livorno e in altre parti della Toscana “pattona” indica una “polenta di farina di castagne” (DEI, sec. cui è attest. sin dal 1676 nel Lippi), probabilm. quella che a Fuc. è chiamata “polenta dorce”, cioè dolce. La voce deriva dal lat. “pactus”=“compatto” (DISC), molto probabilm. per la forma più il suff. accresc. “-ona”

pattóne, s.m.: rilevante caduta con rumore (anche in pis.), ma è un t. regionale piuttosto che dialettale, il quale è un accresc. di “patta” e significa secondo il DISC “colpo preso cadendo”; si pensi, per es., alla frase “Ho picchiato un gran pattone per terra!”

pattuà, s.m.: dialetto parlato anche a Marsiglia, dove erano emigrati per motivi di lavoro diversi fucecchiesi; deformazione del fr. “patois”, deriv. da “patte” = “zampa”, “forse con riferimento alla grossolanità” di tale modo di parlare (De Mauro). Del resto, quando una persona scrive male, non si dice forse che scrive “a zampa di gallina?”

pattume, s.m.: anche erba palustre che veniva pressata presso il Padule di Fucecchio per evitare che le damigiane si rompessero

 

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patónfio, s.m.: vien chiamata così (anche a Empoli) una “persona grossa”, “lenta di movimenti e di pensiero”, ma piò significare paffuto e tranquillo. La seconda parte della parola può far venire in mente senza dubbio l’agg. “gonfio” e si tenga presente che il fiorent. “patonfiona” significa “donna grossa e grossolana” (DEI)

patta, s.f.: bòtta, voce usata, oltre che a Fuc., a Pisa, Lucca, Pistoia, “forse di origine onomatopeica” (DEI)

pattana, s.f.: cetonia; era una voce molto diffusa nel secondo dopoguerra fra i bambini, che si divertivano a far volare in giro circolare con un filo questo insetto dell’ “ordine dei Coleotteri dal caratteristico colore verde metallico” (DISC), tant’è vero che più precisamente viene chiamata “Cetonia dorata” e scientificamente “Cetonia aurata” (M.Chinery): coleottero “nocivo alle piante e ai fiori” (DEI)

patto, s.m. Proverbio diffuso anche da noi: “Patti chiari, amici cari”, oppure “amicizia lunga”: “per avere buoni rapporti è necessario parlare chiaramente e rispettare gli accordi” (DISC) presi. È invece in disuso il detto: “E ‘un feci altri patti” nel senso d’ “immediatamente” (M.Catastini

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pasto, s.m. usato anche nel modo di dire “ ’Un c’ho ma’ fatto un pasto bòno!”: non ho mai mangiato volentieri con lui nel senso che non ci sono mai andato d’accordo

pastoia, s.f.: “miscuglio di acqua e farina” per alimentare “uccelletti in gabbia” (M.Cortellazzo-C.Marcato)

pateracchio, s.m.: “accordo fra due persone” (DEI, che giustamente ne parla come di voce tosc. e in fiorentino col signif. di “matrimonio”, ma in questo vernacolo più precisamente significa accordo per far fidanzare due persone) almeno a Fucecchio poteva però avere un signif. più dispregiativo, come lascia pensare il suff. peggiorativo “-acchio”, oltre al collegamento (cui accennai il DEI) della parola col fr. “patarafe” = “sgorbio”. Infatti a Fucecchio poteva indicare quello che viene chiamato scherzando un “incidente sul lavoro” dal punto di vista amoroso e cioè quando una donna rimaneva  incinta senza aver sposato e senza volerlo. A La Rotta e perciò nel Pisano indica “accordo sbrigativo senza regole precise” (C.Giani), assumendo un significato non certo diverso da quello comune in italiano, sin. d’ “intrigo” sec. De Mauro e “di uso comunissimo” almeno nel vernacolo fiorent., sia di “accordo tra due persone” sia di “conclusione di parentado”, ma con l’ “idea di bassezza”, come affermava P.Fanfani 

patiri, s.m.pl.:patimenti, ma la voce, formata sul v. “patire”, è certamente più usata senza dubbio nel Senese. Si pensi all’espress., indubbiamente viva e perciò simpatica, nonostante quello a cui si riferisce: “Che patiri!”: che sofferenza!

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passero strego, s.m. composto di due nomi, del secondo dei quali è ignoto l’esatto significato a meno che non sia collegabile col fatto che in pis. questo volatile (“Passer montanus”) è chiamato (con un cambiamento del genere probabilm. per una finalità maliziosa d’allusione erotica suggerita dalla peluria e dall’aspetto alla base dei termini volgari “passera” in riferimento alla vulva e “uccello” invece in riferimento al pene) “passera mattugia”, deriv. da “matta” per l’ “irrequietezza” e per l’emissione di un “continuo cicaleccio come se fosse ubriaco”. Non a caso significava proprio questo nel lat. tardo “ mattus” (Devoto-Oli) e si tenga presente che da noi si può sentire usare certe volte il t. “strego” col significato di “stregone”, ma nel senso di indovino. Comunque anche secondo il DEI il t. “matto” può implicare il concetto di “pazzerello”, che per i motivi sopra specificati penso possa spiegare perché venga chiamato ancora in pis. dai cacciatori “passera mattugia” e in modo particolare in fucecch. “passero strego”, ma anche al f. entrambi i nomi, il “Passer montanus” cit. da C. Romanelli 

passionista, s.m.: “appassionato”, anche a Pisa, Livorno e Montalcino (DEI)

passo, s.m. usato anche nell’espress. tosc. “Far tre passi su un mattone”: camminare “lentamente, svogliatamente” come per dire che uno fa “un passo avanti e uno indietro” prima di andare avanti e perciò viene detto anche in riferimento a “persone inconcludenti” (R. Cantagalli). Ha un signif. partic. anche quando si dice: “Sta a du’ (due) passi da lui”: abita molto vicino a lui

 

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passà’, v.intr.: passare. Part. pass. (almeno un tempo e specialmente nel contado) “passo”: passato. Il v. è usato anche nell’espress. “Passan bassi!”, usata sec. R. Cantagalli “quando fa molto freddo”, che farebbe andare la gente “col capo affondato fra le spelle, quasi rattrappita”, ma da noi può anche far riferimento al “gergo dei cacciatori” dal momento che, quando sentono fischiettare i richiami, gli uccelli passano più in basso e allora può essere detto, oltre che quando fa più freddo, a chi passa fischiando suscitando un certo nervosismo a chi appunto sente fischiare. Pare che tale espress. si possa riferire anche al tempo nuvoloso, allorché gli uccelli volano più in basso e così possono essere colpiti più facilmente dai cacciatori

“passà’ di piazza”: passare per la piazza, usato anche in fiorent. verso il 1863 secondo P. Fanfani

passeggèro, s.m. con la semplice funzione rafforzativa nella frase: “Fermati, passeggèro!”: (tu, ma noi diciamo “te”, che stai passando) sta’ fermo!

passera grossaia, s.f. seguito dall’agg. che si spiega perché “ha dimensioni maggiori” del passero comune

 

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parlà’, v. intr. (parlare) come quando in un modo certo non forbito viene detto a una persona, inducendola a stare zitta per non dir fesserie: “Parla quando piscian le galline”, cioè mai perché queste fanno le feci, non vera e propria orina. Questo v. deriva dal lat. tardo del IX sec. “par(abo)lare” = “parola”, si deduce dal DEI, ma tramite l’ipot. lat. parlato “paraula” e tenendo presente che il t. “parabola” deriva dal gr. “parabolè”, che significa “similitudine” (DISC). Il t. parabola, essendo la “forma di discorso preferita da Gesù”, passò a “significare la sua stessa predicazione, cioè la sua parola”; infine da “parola per eccellenza” passò a indicare la “parola di tutti” (F. Fochi)

partì’, v.tr.: partire e in riferimento alla prima parte della frase solo nel senso di affettare (in quello di “dividere” l’usa anche il Pascoli: De Mauro, che giustamente lo collega praticamente col lat. “pars, partis” = “parte”) si può parlare di toscanismo nel caso della frase: “S’ha a partire il pane?”: vogliamo affettare il pane?

partigianata, s.f.: ingiustizia, ma non perché i partigiani, durante il secondo conflitto mondiale, fossero dalla parte sbagliata (tutt’altro!), bensì perché persone di parte. Infatti partigiano (il suff. “-ata” implica a sua volta “relazione”) deriva da “parte” col suff. “-igiano” che indica, appunto, nel caso del lemma sopra registrato, l’appartenenza a una “fazione” (DISC), mentre in altri casi (come in “massigiano”) indica l’appartenenza alla comunità di una località (in questo caso a Massarella)

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par, s.m.: paio e non solo se è preceduto immediatamente dall’art. indet. un. Così, per es.: “Te lo se’ (sei) messo un bel par di carsettoni (calzettoni) di lana per ir freddo?”

parancolata, s.f.: recinzione di pali e pertiche, ma è un termine in declino. Probabilmente è una deformazione al posto di palancolata, essendo chiaramente  collegata con “palo” e, come sappiamo, il passaggio dalla –l– alla –r– è tutt’altro che raro nel vernacolo fucecchiese e, più in generale, nei dialetti della Toscana centro-settentrionale aventi per base fondamentale il pisano arcaico

paraòre, s.m.: paracuore ovvero polmone di un animale come un vitello (così anche nel pisano);  infatti il primo elemento di tale composto deriva dal gr. “parà” = “presso” (DISC) e il polmone non è forse posto vicino al cuore?

pariciòttolo, s.m.: “pianerottolo” (M. Catastini), ma mi risulta che sia un termine scomparso

 

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pappatóia, s.f.: pappatòria, usata non solo nel linguaggio familiare col significato di “grossa mangiata” (DISC) e anche dal Fucini in “Acqua passata”; oggi viene riferito a un luogo dove  esistono troppi privilegiati; parlando di essa, spesso si allude a quei “centri di potere dove la pappatoria, cioè il profitto illecito, è più facile e più consistente” (L.Bezzini), compreso il Parlamento. Non a caso c’è chi ha chiamato “monteciborio” Montecitorio

pappavero, s.m.: papavero, ma il raddopp. della –p– è attest. anche in pis. (B.Gianetti) e pure nel ‘600 (DEI) e il vocabolo può indicare in Toscana, oltre alla pianta nota e diffusa anche nei nostri campi, (“Papaver rhoeas”), un “uomo sciocco” e più in generale una persona “che occupa un posto di primo piano nella vita pubblica di un paese” (De Mauro); in quest’ultimo caso , se si tratta di un borioso e di un vanesio, la geminaz. della –p– è veramente espressiva

pappié, s.m.: scritto lungo e noioso; “volgarismo” anche tosc., derivato dal fr. “papier” = “carta”, “adattamento (…) dal lat. papyrus” = “papiro” e dal fr. derivano anche il ted. “papier” (donde il serbo-croato “papir”) e l’ingl. “paper”: DEI, che ne parla in riferim. al “papèllo” e a “pappiè”, mentre noi, come abbiamo visto, diciamo “pappié”

pappino, s.m.: infermiere, voce “d’origine gergale fatta su pappina”, mentre a Firenze aveva anche il significato di “impiastro di semi di lino”, da “pappa” (DEI), come alimento giornaliero (R.Raddi) in partic. per malati. Peraltro “pappino” è detto specialm. in rifer. a chi è infermiere in un ospedale psichiatrico, come nella frase: “Poi vengono i pappini!” in rifer. a chi agisce in modo tale da essere portato via da infermieri di un manicomio per il suo comportamento da pazzo o da pazzoide

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